Il calcio impossibile della Lega Pro sepolto dai debiti

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ROMA – L’insostenibile leggerezza del pallone di periferia è testimoniata dall’affollamento del suo cimitero sportivo: 107 squadre di provincia sparite dal 2000 a oggi, seppellite da una montagna di debiti. Il piccolo mondo della serie C ha cambiato nome, mutato formula, lanciato lo streaming gratuito di tutte le sue partite sul web. Ma anche adesso che si chiama Lega Pro, che ha una divisione unica e ha ridotto i club in lizza, resta un torneo in cui è difficile arrivare a fine mese, figurarsi a fine stagione. Ci sono i calciatori del Savoia che non vedono uno stipendio da mesi e hanno inscenato plateali forme di protesta, come quella di allenarsi in strada, fuori dallo stadio. Quelli del Monza, in ritiro prima di una partita importante, hanno imparato a fare la spesa e cucinarsi la pasta da soli. Il Barletta, invece, per trovare acquirenti alla società è arrivato a dare la procura a un capo ultrà.
Se il caso-Parma ha scosso la serie A e costretto la Lega al mutuo soccorso per salvare la faccia al campionato, in Lega Pro la crisi dei club è qualcosa di perfettamente ordinario, un male necessario e inestirpabile, con riflessi evidenti sui destini sportivi. Basta dare un occhio alle classifiche dei tre gironi: 16 club sono stati sanzionati per irregolarità amministrative e ritardi nei pagamenti, e le penalizzazioni, che oscillano di concerto con i gradi della giustizia sportiva, ammontano a 49 punti. In questo momento, almeno: erano arrivate a 64 prima degli sconti in appello. Il Novara era in testa al suo girone, con un piede in B, quando si è visto togliere 8 punti per inadempienze negli stipendi ed è scivolato al quarto posto, a metà aprile. Non ha smesso di vincere, ha riacquistato 5 punti in appello, è tornato in corsa per la promozione diretta. Tutto in due settimane, in pieno rush finale. La Reggina, invece, prima è retrocessa per una penalizzazione di 12 punti, poi è stata rianimata dalla Corte d’Appello che gliene ha restituiti 10, mentre il presidente Foti è in procinto di vendere il club a imprenditori calabresi emigrati in Australia.

Se la Crisi Football Club fosse una squadra reale, con i suoi 49 punti lotterebbe anche quest’anno per i play-off. Il dato è impressionante perché quella in corso è la prima stagione dopo la riforma. Non più due categorie (C1 e C2, poi Prima e Seconda Divisione), una drastica riduzione dei club a 60 unità (erano 90 nei quadri originari). Il vecchio sistema era insostenibile: la C2/Seconda Divisione, in particolare, più che avamposto del professionismo, era diventata una terra di nessuno. Facile approdarvi dalla D con una squadra dilettantistica, ancor più facile sparire nel giro di un anno o due. Tagliati i rami secchi, la nuova Lega Pro doveva essere virtuosa, esaltare il suo lato migliore: il torneo dei campanili, dei piccoli grandi derby, delle realtà imprenditoriali legate al territorio. A questi livelli, il calcio non si fa con i soldi di tv e sponsor, e i ricavi al botteghino non bastano mica a coprire i costi. In serie C, il calcio si nutre ancora dei baiocchi del presidente, della sua famiglia, della sua azienda.

Il caso Pergocrema. La fotografia del declino parte dall’alto: il presidente della Lega Pro Mario Macalli è stato appena squalificato per sei mesi. Per il Tribunale federale nazionale, ha violato i doveri di “lealtà, probità e correttezza”, fondamento del codice di giustizia sportiva. Niente male per uno che è alla guida dal ’97, è vicepresidente federale ed è stato decisivo nell’elezione di Carlo Tavecchio.

La sentenza, pronunciata il 29 aprile, si riferisce al caso Pergocrema. Clamoroso, a raccontarlo. Il Pergocrema è un club fallito nel giugno 2012. Ma non uno qualsiasi. E’ la squadra di Crema, la città di Macalli. Il quale dal febbraio 2011 ha cominciato a registrare quattro marchi di possibili altri nuovi club riconducibili alla città (Pergocrema, Pergocrema 1932, Pergolettese e Pergolettese 1932). E quando il Pergocrema è sparito, Macalli ha concesso l’uso di uno dei propri marchi (Pergolettese 1932) al presidente del Pizzighettone, che ha trasferito la squadra a Crema e le ha cambiato nome. Tutto questo mentre il vecchio club, come poi ha denunciato l’ex presidente Sergio Briganti, si vedeva negare ad aprile e maggio 2012, poche settimane prima del crac, un versamento di 256mila euro dalla stessa Lega Pro. Soldi dovuti come tranche dei diritti tv.

Il quadro che emerge è curioso: se la Lega di A si è mossa in blocco per salvare il Parma, in Lega Pro il presidente ha “di fatto stabilito chi dovesse svolgere l’attività calcistica nella città di Crema”. Sul piano penale, Macalli è stato rinviato a giudizio, il gup di Firenze l’ha prosciolto dall’accusa di abuso d’ufficio. Sul piano sportivo, la giustizia è stata meno clemente, anche se la sentenza è solo di primo grado e per il momento gli ha evitato di lasciare l’incarico: un giorno in più di inibizione e sarebbe scattata la decadenza. Imbarazzi? Dimissioni? Macché. La Lega Pro è abituata a superare piccoli incidenti: l’assemblea di dicembre ha bocciato il bilancio, una folta e agitata minoranza chiede da mesi una nuova seduta per sfiduciare Macalli e andare al voto. E’ ancora lì che aspetta, ingabbiata da una melina di rinvii e carte bollate.

Un milione bruciato ogni anno. Quanto costa fare un campionato di Lega Pro? E, soprattutto, quanto ci rimettono i soci proprietari? L’ultimo report della Figc disponibile è del 2014, antecedente dunque la riforma dei campionati e basato solo sui bilanci disponibili. Il fatturato medio è di 3,1 milioni, i costi si aggirano sui 4,2 a stagione. Questo vuol dire che, in media, ogni squadra brucia 1,1 milioni a campionato, un tesoro sproporzionato al valore della produzione (che pure presenta un trend recente in crescita). Inoltre i debiti sono pari all’86% del fatturato.

Pagare gli stipendi, più che un dovere, è un’impresa. Il rapporto fra il costo del personale tesserato e il fatturato netto è al 78%. Secondo gli ultimi dati disponibili della Figc, l’ingaggio medio di un calciatore di terza serie sfiora i 25mila euro annui lordi (24.910), contro i 76mila di uno di B e i 258mila di uno di A (una media poco fedele, che non racconta la sperequazione fra top player da 12 milioni lordi annui e umili comprimari). Ma in serie A gli incassi dalle tv sono praticamente uguali al monte ingaggi – entra un miliardo di diritti, esce un miliardo di stipendi – e ogni club ha una certezza, all’inizio del campionato, sull’ammontare della sua fetta di torta. In C, invece, i ricavi da stadio sono la voce principale del bilancio, assai modesta. Tranne rare eccezioni virtuose, si resta aggrappati ai contributi che arrivano dall’alto, alle briciole che piovono dal tavolo. Nessuno sa con certezza a inizio stagione su quali cifre potrà contare e su quando verranno corrisposte. Andare in sofferenza finanziaria, ritrovarsi con la cassa vuota, è un’evenienza frequente, come dimostra l’ondata di segni “meno” nelle classifiche.

Secondo la Federcalcio, negli ultimi 30 anni sono sparite 162 squadre professionistiche: una in A (il Torino, neopromosso e non ammesso nel 2005), 8 in B, 153 in C, di cui 21 in Campania, la regione più colpita. Ma nella Spoon River son rappresentate anche Toscana (19), Puglia (16), Sicilia (14), Lombardia (13), la virtuosa Emilia-Romagna (13). L’equazione, più che geografica, è demografica: le regioni più popolose sono quelle che hanno proiettato fra i professionisti il maggior numero di club e, di conseguenza, che hanno pianto il maggior numero di fallimenti. Il pallone annaspa in provincia senza fare questioni di latitudine.

Fonte: Repubblica Inchieste




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